venerdì 10 settembre 2021

Pòrta Pila, Pòrta pila, ël pì bel borgh dël nòstr Turin.


Porta Palazzo, porta pila, è il cuore popolare di Torino e come tale è raccontata in saggi (assolutamente da leggere “ Porta Palazzo e il Balon” di Cesare Bianchi, editrice Piemonte in Bancarella, Torino, 1975), romanzi, film (dal delicato e ironico “ la donna della Domenica” al più sguaiato “Al bar dello sport”), e nella musica, partendo da quella tradizionale fino ad arrivare al contemporaneo come ad esempio “al mercato di Porta Palazzo” del compianto Gianmaria Testa, oppure “Portapalazzo” di Willie Peyote. 


Uno dei suoi massimi cantori è stato anche uno dei suoi figli, quel Giuseppe Farassino “Gipo” nato a pochi isolati dalla grande piazza “Ma peui àusso j’euj lassù al prim pian, e i vëddo mia mama… a rij e am fà ciao, così, con la man: antlora am ven veuja ëd core ‘nt la strà, fërmé ‘l prim ch’a passa, crijéje: “Monsù! Ma a lo sa chiel che sì, al 6 ëd via Cuni, i son naje mi?” ( ‘l 6 ‘d via Cuni). Agli inizi della carriera i suoi primi lavori discografici sono raccolte di canzoni popolari piemontesi da “La Monferrina” a “Baron Litrun” (dedicata a Karl Sigmund Friedrich Wilhelm von Leutrum comandante della piazza di Cuneo) , in buona parte le stesse che la domenica venivano cantate dagli artisti di strada che si esibivano in piazza oppure nei cortili. Tra il 1962 e il 1963 escono: “Le canssôn d' Porta Pila” (con Riz Sammaritano e tal “Giuanin d’Porta Pila” (nom de plume dello stesso Farassino), “Le canssôn d' Porta Pila n°2” e, infine, “Le canssôn d' Porta Pila n°3”. Il menestrello delle barriere torinesi, e dei suoi personaggi da “Bleck la jena” a “Beppe naviga” da “Francon”a “El Ceser”, non dimentica Porta Palazzo che sovente fa da sfondo alle storie che racconta come ad esempio nel “’L tole ‘d Civass” (1970) nella quale il lattoniere Adalberto Romolasso giunge a Porta Palazzo con la fidanzata Mariarosa per acquistare il “seirasso” “Il seirasso è quella cosa che assomiglia un po' ai tomini c'è chi ci fa senso, chi va pazzo e chi lo mangia coi crostini.” la lite che ne consegue a causa dell’odore del latticino “Mariarosa non sapeva che il seirasso manda il puzzo più o meno che si trova in un camion di merluzzo.” porta all’annegamento della povera donna nel barile nel quale viene conservato il formaggio. Oppure il monologo “’L trenin ‘d Leinì” nel quale si racconta dell’incendio del 18 giugno 1910 provocato dal trenino che partiva da Porta Palazzo e arrivava fino a Leinì “L'è certo che, për ani, si a Turin ij sòlit traficant a l'han vendù: MERCE SALVATA DALL'INCENDIO DI PORTA PALAZZO! Sta màniga d'artista dël bidon, 'mpinìa 'd ròba frusta ij magasin, 'd neuit l'ambërlifavo co'l nèir fum e peui la sbolognavo la matin.” (Gipo a sò Piemont – Vol. 2” nel 1971).

 Il suo capolavoro arriva nel 1967: due anni prima, nel 1965, Charles Aznavour pubblica il brano “La Bohème” scritto insieme a Jacques Plante, la canzone struggente sottolineata da uno scarno pianoforte e dal violino racconta la gioventù e l’amore di due artisti squattrinati a Monmartre, Farassino la riprende all’interno dell’album “Auguri” e la trasforma nella celeberrima “Porta Pila” i due artisti diventano una sartina e un ragazzo che vive di espedienti. È uno spaccato di vita di un quartiere e di un epoca nella quale anche i piccoli piaceri che potevano essere un film al cinema oppure fumare delle sigarette già confezionate era quasi un lusso “Të spetava ògni sèira, tacà a cola pentnòira, pròpi sota toa ca, mì fasia ij sàut mortaj për comprè quatr nassionaj e portete al cine Auròra”, inevitabilmente la vita porta i due amanti per strade differenti lui via da Torino a cercar fortuna e lei, nonostante la promessa di aspettarsi, verso il matrimonio. Il finale è uno straziante ricordo di un tempo e di una gioventù ormai alle spalle “’t ses pì nen a Pòrta Pila; col negòssi ‘d pentnòira j’è pì nen e la Doira a smija ‘n canal ëmbotija, cò ij so mërcà quatà: Pòrta Pila a smija mòrta e mì canto magonà: Pòrta Pila, Pòrta Pila, la gioventù sensa sagrin. Pòrta Pila, Pòrta Pila, adess lìè mach p’ ‘n seugn lontan”.

Lorenzo Vergnasco

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